Dare significato alla vita può sortire la follia. Ma una vita senza significato è la tortura dell’irrequietezza e del desiderio vago – è una nave che anela il mare eppur lo teme.

Le promesse che non sono state scambiate non possono essere infrante

IQ84, Murakami Haruki

Di tutte le promesse che ho fatto, non sono riuscita a mantenerne neanche una. Con tutto l’impegno che ci ho messo, sono evaporate come neve al sole senza che neanche me ne accorgessi.

Delle domande che ho posto, poche hanno trovato risposta, e di tutte le risposte che ho ricevuto, non sono mai riuscita a farne la domanda adeguata; sono arrivate, senza chiedere permesso, e si sono accomodate violente nel centro della mia vita. Vorrei chiederne il significato, delicatamente, sapere perché hanno deciso di comparire in questo momento preciso, senza necessità apparente, sapere che fine abbiano fatto le risposte che avevo chiesto precedente; senza l’urgenza di sapere, solo per una tranquillità interiore. Ma loro sono così impassibili, nella loro austera severità di chi ha importanza e questa non viene riconosciuta, che la mia voce muore prima di uscire dal mio corpo.

Molti dubbi che ho avuto sono diventate certezze, molte certezze sono crollate in un assordante frastuono.

Di tutti i progetti che ho intrapreso, pochi sono continuati; di tutti i sogni che ho fantasticato, molti mi accompagnano ancora.

coppia con teste piene di nuvole, dalì, 1936

E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.

Farewell – Francesco Guccini

Dopo un po’ una persona si crede assuefatta.

Assuefatta dalla noia, dal dolore, dalle cose negative da cui sempre è bombardata. Dopo un po’ pensa solo “ok, è così, tiriamo avanti.”. E si libera dai ricordi, da momenti vissuti, da quegli attimi in cui la felicità urlava la sua presenza, e accetta con sommaria passività che, bene o male, i sogni finiscono sempre. Inizia a condurre una vita normale, non proprio come prima, ma con una parvenza di serenità e di tranquillità che ricoprono le sue azioni. Come finiscono i momenti belli, col tempo svanisce anche il dolore.

Eppure non dura. Non dura, basta una banalità, delle note che compongono una canzone, un motivo una volta conosciuto a memoria, poi dimenticato. Gli inglesi usano un termine carino per dire “imparare a memoria”: “learn by heart“, imparare col cuore. Ci sono cose che non si possono imparare che col cuore. Le si possono rimuovere, le si nascondono per autoconservazione, ma non passano, non si dimenticano. Si pensa di aver allontanato da sé immagini di persone, di momenti, di sensazioni, profumi e rumori, ma basta un nulla perché questi tornino. Perché ci sono due tipi di ricordi, di carica diversa. Quelli della prima specie, sono una sorta di cronaca di momenti passati. Si ricordano momenti che si hanno vissuto, e possono anche portare con se dolore, ma solo se non si è ancora capito che tali momenti non possono più tornare; è qualcosa di andato, che nulla potrà più far tornare indietro. Il secondo tipo invece sono inattesi, possono presentarsi anche a distanza di anni, e un soffio di vento può portare con se l’intera carica emotiva di una vita lontana, e ci vuole un’estrema forza per ricordarsi che sono passate eternità, storie e fantasmi da quel momento, per non soffrire più. Anche se ci si sente sereni, quando questi attimi tornano, si crolla.

E dopo un po’ una persona può credersi assuefatta anche dai crolli, ma non basta.

Guess your dreams always end.
They don’t rise up just descend,
But I don’t care anymore,
I’ve lost the will to want more,
I’m not afraid not at all,
I watch them all as they fall,
But I remember when we were young.

Insight – Joy Division

Outside The Wall (pt. 2)

Is there anybody out there?

E se il muro non fosse caduto?

Anni fa ero totalmente ossessionata dai Pink Floyd, cosa che non mi è per niente passata, forse solo è meno malata, e avrò visto The Wall un sacco di volte, almeno una volta a settimana, per un periodo ogni giorno; quel film riempiva le mie crisi, dava voce alle mie ansie. Come Pink, mi sentivo rinchiusa all’interno di un muro, da me costruito, dove non c’era comunicazione tra l’esterno e l’interno, le mie emozioni non riuscivano ad accendersi del tutto e nulla riusciva ad emozionarmi sul serio. Ai tempi, almeno, credevo che fosse nulla, ora guardo a quel periodo ed erano molte di più le cose che, in fondo, mi tenevano in vita: sebbene mi ritenessi alienata, rubando il termine da Estranged dei Guns n’ Roses, canzone anche lei abusata in quel periodo, guardando ora a quel periodo, non era tutto così nero come lo vedevo. Una cosa che me ne da conferma, è il fatto che trovassi termini di paragone della mia situazione in libri, poesie e canzoni, cosa che adesso non avviene molto spesso; al più, i miei termini di paragone sono i miei coetanei, ho la fortuna che spesso molti amici si confidano con me, e vedo un terreno di ansie e paure comuni, come se la nostra generazione sia stata creata con un set predefinito di problemi che, in ognuno presente con una propria diversità, rovinino costantemente quella leggerezza che invece tutti cercano. Il fatto che un individuo potesse provare all’incirca ciò che provavo io ai tempi mi sembrava una cosa straordinaria, e avevo fatto di quel film una sorta di modello; se fossi riuscita ad andare al di là del muro, forse avrei evitato di sentirmi “piacevolmente intorpidita”, con “una estrema voglia di volare, ma nessun posto per farlo”. Vita o voglia, mi sono impegnata sul serio, e confrontandomi ora rispetto a quei tempi, nonostante problemi-paure-ansie-angosce-tuttecosepocopiacevoli siano notevolmente aumentate, ho uno spirito e una consapevolezza diversi nell’affrontarli, meno passiva, più impegnata nel risolverli.

Però il riflettere su film, canzoni e poesie non mi è passato del tutto, e una domanda resta: come è caduto il muro?

Nel film non viene spiegato affatto, c’è una bellissima canzone su un giudice che condanna il povero Pink ad abbattere il muro, dato che è troppo orrido e schifoso per come si è comportato, per come con la sua insofferenza abbia fatto soffrire coloro cui stava a cuore, e si conclude con una riflessione sul fatto che, bene o male, chiunque o ha un muro o è costretto a sbattere testa e cuore contro il “fottuto muro di qualcun’altro”. Ascoltando un album che, inspiegabilmente, solo di recente sono riuscita ad apprezzare, The Final Cut, nella canzone che dà il titolo all’album Roger Waters dice “se ci sarò vi dirò cosa c’è dietro il muro”, e a quel punto si sente un suono di uno sparo. Rifiutando la modalità di analisi della letteratura del mio prof del liceo, senz’altro valida, ossia che un testo non rappresenta affatto ciò che l’autore vive, il contenuto è solo un espediente per la forma in cui viene detto, e considerato ciò che si dice sulla vita di Roger Waters, la maggior parte dei suoi testi sono altamente autobiografici; poi, che voglia partire da se stesso per dare forma a capolavori, cosa in cui comunque riesce, è un altra questione, a me interessa che ci sia del vero nei suoi testi, e non volendo discutere se ce ne sia o meno, lo postulo come tale. Per quanto io sia tonta, pensare che per abbattere il muro ci sia voluto il suicidio di Pink significherebbe fare come gli opossum dell’era glaciale, che di fronte a uno strano animaletto, ora non ricordo quale sia, che racconta una sua mirabolante avventura in cui ha rischiato la vita chiedono “e sei morto?”. Lo riconosco, Pink non è Waters: se Pink abbatte il muro con il suicidio, Waters può anche non averlo abbattuto perché “non ha mai trovato la forza per dare il taglio finale”, e quindi il suo muro è ancora là, bello alto e solido, imbattibile. Ecchissenefrega, sostanzialmente, se il muro di Waters è integro o meno, lui suona, è bravo, fa ancora album e concerti, tanto basta. Ma il mio è un bisogno di sapere, perché se l’unico modo di abbattere il muro fosse il suicidio, essendomi identificata così tanto, il mio muro sarebbe solo un po’ increpato, ma là. Alto o basso, con delle finestre che facciano passare l’aria o meno, ma ancora presente. Come come come come si fa ad abbattere il muro, evitando che poveracci sbattano se stessi contro il proprio muro e di far soffrire coloro che al proprietario di questo muro, in fondo, vogliono bene? Come si può smettere di essere piacevolmente intorpiditi, e prendere finalmente una boccata d’aria fresca al di fuori di questo muro?

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No Future?

Come introduzione a Heidegger, il prof di un corso che ho seguito lo scorso semestre a filosofia, ha spiegato che egli pone le sue basi in due autori proto cristiani visti in chiave luterana, Agostino e Paolo. Da Agostino, riprende il concetto di inquietudine, angoscia che ci prende nel vedere la vacuità delle nostre azioni, la “molestia” nel vedere il nostro essere dissolversi, e da Paolo invece apprezza il concetto di attesa: le prime comunità cristiane, infatti, attendendo la seconda venuta di Cristo, hanno reso il loro futuro presente, permettendo loro di vivere l’intensità dell’attimo. Sostanzialmente, per superare l’inquietudine e l’angoscia quotidiana, bisogna vivere in un futuro in cui si mantenga costante un polo di attese, in cui l’atteso non deve mai manifestarsi per non infrangere questa polarità.

Purtroppo non sono una mente geniale, so pormi domande poco stupide, so vagliare tesi interessanti altrui grazie a un apparato culturale che da anni sono impegnata a costruirmi, ma non sono mai stata in grado di formulare una tesi mia. Forse è colpa della cultura in cui siamo inseriti che, come dice Ferraris, ci porta a vedere tutto sotto il filtro dell’ironia, non prendiamo sul serio nulla, nemmeno le nostre opinioni personali, perché questo è indice di dogmatismo. Forse le mie riflessioni sono solo simili alla filosofia antica, che viene studiata per via del fatto che ha saputo porre le giuste domande, ma non ha cercato le risposte. Più probabilmente, i pensieri nella mia testa sono posti in un ordine denso, e pormi domande è un tentativo di dare loro un ordine discreto. Ma mi sono chiesta cosa significhi, sul serio, la parola “futuro”.

Figlia di anni di musica Punk, osannavo il pensiero del “no future”, e doveva pure esserci una canzone, credo dei Guns N’ Roses, che diceva “non mi preoccupo per niente, perché preoccuparsi è una perdita di tempo”; vivere il presente, preoccuparsi solo del breve termine. Devo aver visto un film attorno ai sedici anni, se ricordassi il titolo sarebbe qualcosa di carino, credo fosse SLC PUNK, o forse era un pensiero mio, ma dubito perché la mia mente è in grado solo di rielaborare, sa creare solo se ha una serie di concetti che può collegare, e ai tempi ero piuttosto stupida, in ogni caso, ho questo ricordo che dice che chi vive nel presente non può vivere il futuro, se lo preclude a priori. Poi è arrivata una fase negativa nella mia vita, e c’erano i Joy Division, che si chiedevano cosa importasse l’esistenza, il mio passato è il mio futuro e il presente è fuori controllo. Ora c’è Vasco Brondi, che dice che nel disastro il futuro era sempre là a sorridere. Non c’è alternativa al futuro, proprio ora che fa così tanto paura. (FUORI DISCORSO: l’ultimo cd passerà alla storia. E io ora ho tutta la discografia firmata e una foto con lui. Ehehe.)

Non ho mai visto un futuro per me, una vita che mi ci vedesse inclusa. È un problema che ho sempre avuto, sono totalmente ancorata al presente, per me il futuro è da sempre esistito solo nella mia procrastinazione, era il luogo dove si racchiudevano le cose che avrei dovuto fare, e molte di queste non le ho ancora iniziate. L’unico futuro che ammettevo era il per sempre, o il più a lungo possibile, dei rapporti umani, e tutte le persone che avrei voluto nel mio futuro ora non ci sono, per vita o scelta sono ormai lontane. Ho sempre vissuto sfida per sfida, forse troppo, la mia sicurezza dipende dal poter lottare per qualcosa, e quando questo qualcosa mancava “andare a letto il giorno dopo era forse l’unica mia meta”, per momenti di sconforto assurdi che mi impedivano (o impediscono) ogni tipo di razionalità. Senza alcun tipo di ambizione, mai avuta, o di sogno, l’unico sogno è la scrittura, ma anche quella è qualcosa che faccio per me, e solo nel presente, le storie che scrivo e non termino restano sempre incompiute, senza alcuna motivazione che vada al di là di ciò che ho da fare nella giornata, sono piombata a piedi pari in quello che una vita fa era il futuro, e chissà quanti altri futuri ho da costruire. Non mi ricordo chi fosse, mi pare un filosofo esistenzialista, diceva che per ogni nostra azione in un altro universo c’è una sorta di nostro alter ego che ha fatto l’azione opposta. Mi è sempre piaciuta questa immagine, un po’ per quei rapporti umani di cui parlavo prima, che potrebbero durare ancora, magari sul serio per sempre, come doveva essere nelle nostre intenzioni originarie, un po’ perché mi piace pensare che ci sarà una Silvia a cui andrà meglio, una a cui va peggio, ma io sono il risultato di ciò che ho fatto, ogni mia determinazione è stata da me costruita, cercando di fare il meglio possibile. Nonostante i miei sbagli e i miei momenti di sconforto che mi hanno ostacolato il presente, non riuscirei a vedere una me stessa diversa. Forse perché la mente umana cerca sempre una logica, e attraversare la caoticità di avvenimenti senza senso porta, una volta che se ne è usciti, a trovarci ragioni o sofismi che la giustifichino. Se non fossi stata bocciata, se non avessi fallito più e più volte, non avrei affrontato gli ultimi anni del liceo con la voglia di riuscire a farcela che ho avuto, e ora nell’universo della Silvia promossa ci sarà una persona perennemente sul divano a passare le sue giornate guardando la televisione, perché la voglia di reagire che ho ora non me la sarei saputa creare. Mi piace pensarla così, e se poi è una persona vincente, che è riuscita in tutto quello che si è prefissata, sarei contenta per lei, ma dubito che ci sia riuscita, mi conosco purtroppo troppo bene. E ora sono nell’angoscia del vedere la vanità delle proprie azioni di cui parlava Agostino, troppo spesso mi sto trovando a sentire ogni mia cellula, la mia pancia, le mie gambe, le mie mani, urlare che la vita che sto vivendo non mi appartenga, ci sia qualcosa di sbagliato, sia completamente inutile, che mi sia persa, anche se non mi manca nulla di cui abbia bisogno, anzi, ho più di quello che chiedo, veramente tanto. Mi mancano ambizioni e sogni, eventi da attendere e sperare che non si realizzino per vivere nella polarità attesa – atteso, e spesso questo mi fa sul serio paura, mi sento spaesata senza nulla per cui lottare. Ho paura, e non so come combatterla. Però mi viene da pensare che forse anche la paura è sintomo dell’esistenza, al pari della felicità, è testimonianza di una reazione, di una volontà che cerca di affermarsi, anche se non sa come o in che modo farlo. Non lascia quella sensazione di serenità con cui ricaricarsi nei periodi d’oro, tutt’altro, spoglia completamente ogni cosa bella del proprio significato, ma è preferibile al lasciarsi piovere addosso, o guardare l'”acqua passata” scorrere, senza capacità di reagire.

Credo sia proprio questo il futuro. Lottare contro i limiti del presente, cercando sempre di stare al meglio possibile, di urlare a se stessi di essere vivi. Se poi si costruisce qualcosa o si distrugge ciò che si crea, è relativo al bisogno che si sente in quel presente. Spero sul serio sia così.

Elogio alla solitudine

Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo.

Blaise Pascal

Ce l’ho fatta.

Semplicemente, una serie di delusioni che hanno dominato in questi mesi, la perdita di persone o sogni che nella mia vita hanno regnato sovrane e mi hanno sostenuta quando avevo perso completamente la voglia di dare un senso alla mia vita, mi hanno fatto capire che è finito il magico mondo dell’infanzia, dove per volontà o caso tutto ciò che volevo in qualche modo arrivava, dove non era importante rimettersi completamente in gioco, perché inserita in un meccanismo di vita che mi permetteva di essere irresponsabilmente ciò che volevo essere, e ho dovuto cercare di nuovo le basi solide di ciò che sono.

Con la fine dell’adolescenza, ho voluto ritornare alle origini.

Se c’era una cosa che caratterizzava la Silvia bambina, era una capacità incredibile di restare da sola. A parte durante l’estate, che era fatta di giochi e risate con tutti i bambini del mio paese, ho sempre amato stare “per conto mio”. Mi ricordo che durante gli intervalli delle elementari, mentre le mie amiche giocavano con le barbie o parlavano dei ragazzi della classe, io disegnavo tranquilla nel mio banco, caratterizzato dal disordine che ancora mi porto dietro. A otto anni erano iniziati i miei problemi di vista, perché leggevo troppo, leggevo la notte, al buio, leggevo finiti i cartoni o durante le pubblicità; il cellulare, verso il quale in seguito ho sviluppato una dipendenza, serviva solo per le emergenze, se c’era qualcosa da dire a qualche amico lo si vedeva il giorno dopo o si chiamava a casa. “Ma non potevi mandarmi un messaggio?” “Non ci ho pensato, lo uso sempre per avvisare i miei se succede qualcosa”.

E poi c’è stata l’adolescenza, i gruppi di amicizie che dovevano esistere per sempre e che sono resistiti, per la maggior parte, i messaggi per sapere se quella persona a cui non andava tutto per la perfezione stesse bene; il primo amore, notti insonni per mandare messaggini pieni di sentimenti, sforando i 140 caratteri perché “chissenefregadeisoldi”; quell’amicizia che era sempre stata qualcosa di più, chiamate eterne per parlare del più e del meno e pomeriggi passati su Facebook solo per sentirlo. Messaggi alle amiche, perché quando con queste persone finiva mi restavano i vuoti, momenti della giornata che prima passavo con loro e che poi lasciavano momenti eterni in cui tutto urlava “sei rimasta da sola, e da sola te non puoi farcela”. Messaggi per consolare e per essere consolata, per ridere e prendere in giro, messaggi per dire “io ci sono”. I pochi momenti che mi restavano per me stessa e le mie passioni, che ai tempi erano leggere ed ascoltare musica, sono stati sostituiti a uscite con gli amici e studio, e pian piano mi son trovata a dedicarmi a me stessa solo qualche notte, di rado, se non ero troppo stanca o non avevo altro da fare.

Ed ora sono qua, ad anelare i momenti di solitudine, riuscendo di nuovo dedicarmi a me stessa, passando il tempo non solo a dedicarmi alle passioni precedenti, ma anche a pensare, diverso dal pensare di prima, dove dovevo avere un’opinione circa ogni cosa succedesse, ma penso alle modalità di pensiero, a come la mente cambia e cambia l’attenzione che si volge alle cose, penso alle sfumature che prima non notavo, ai toni di colore che assumono le mie giornate, e mi stupisco nel vedere in altri quella mia vecchia paura di restare soli, o il loro tentativo, fatto credo come favore, di strapparmi da questo paradiso di solitudine che ho finalmente riconquistato.

Si sa, non tutti se la possono permettere: non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico: il politico solitario è un politico fottuto di solito.

Però, sostanzialmente quando si può rimanere soli con sé stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle.
E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.

Con questo non voglio fare nessun panegirico né dell’anacoretismo né dell’eremitaggio, non è che si debba fare gli eremiti, o gli anacoreti; è che ho constatato attraverso la mia esperienza di vita, ed è stata una vita (non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta d’identità), credo di averla vissuta; mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura.

Fabrizio De Andrè – Elogio alla Solitudine

Premetto che lo scritto qui presente non vuole offendere ne criticare in alcun modo gli artisti citati, non possedendo io le doti ne come musicista, ne come critica, e non possedendo nemmeno una conoscenza assoluta dell’argomento. Sono una semplice ascoltatrice di musica, che si è trovata a riflettere sui cantautori italiani delle scorse generazioni e sul panorama musicale italiano odierno.

Sono cresciuta con le canzoni di Guccini. Per me egli è stato un maestro, e lo è tuttora. È stato fondamentale, per la persona che sono, il suo modo di vedere il mondo, la sua capacità di raccontare se stesso e il suo vissuto, e le riflessioni insite nelle sue parole,  presenti sia nelle canzoni più intime e personali , in quelle più politiche e sociali, che in quelle a contenuto più filosofico, a lui caro; ad oggi, che tuttavia non ho dimenticato questa componente essenziale dei suoi testi, lo apprezzo per la metrica, per il suo modo di scrivere, la sua incredibile capacità di trovare sempre le rime, poiché non esiste una sua canzone priva di una strofa non rimata, e capita che talvolta mi trovi a scrivere poesie o racconti personali, che spero un giorno saranno letti non solo da me e pochi intimi, usando come linea guida i suoi testi.

Col tempo a Guccini si sono aggiunti altri grandi Cantautori, in primo su tutti De Andrè, con la presenza di Ivan Graziani, Battisti, qualche canzone di Vecchioni, Lolli, Bennato e,  di recente, De Gregori (è merito delle sue canzoni se mi sono trovata a riflettere sull’argomento di questo intervento) e l’immagine che davano della  gioventù italiana da loro descritta era piuttosto positiva. Le loro canzoni trattavano di figure emarginate, prostitute che abitano in via del campo o zingari felici, o giovani impegnati, alcuni di loro particolarmente audaci che tenevano in tasca l’Unità,  altrimenti storie d’amore finite male che si ricordano tra tintinnanti stoviglie, luci di qualche stadio o pareti di una casa che nascondono le proprie madri, che non si trovano mai. L’immagine complessiva era, in ogni caso, una forte voglia di vivere e una speranza che permea, nonostante rabbie o delusioni, questa atmosfera che, generalizzando per cercar di creare un discorso coerente, questi artisti hanno creato.

Arrivo ora, dopo questa “breve” introduzione, a sostenere la mia tesi.

Da circa un anno ascolto molto spesso un progetto musicale nato da un giovane ferrarese, Le Luci della Centrale Elettrica (che omaggio con il titolo di questo intervento, preso da una frase di “la Lotta Armata al Bar”, o dal titolo della sua biografia). Abitando a ridosso dell’hinterland milanese, le atmosfere cupe della pianura padana sono qualcosa di facilmente riconoscibile, e l’angoscia che spesso la nebbia che avvolge appena si esce di casa provoca è condivisibile; inoltre, sebbene sia una “brava ragazza” (non è questo che fa una persona, ma non ho problemi con droghe o alcool, fumo qualche sigarette di troppo, studio e le persone che frequento hanno (per la maggior parte) la fedina penale pulita), il mio paese ha avuto una storia simile a quella di Quarto Oggiaro, quindi la sera, con gli amici, quando si esce, non si va in un cinema o in un pub, ma si va “a prendere freddo da qualche parte”, illuminati solo da lampioni o semafori lampeggianti, con il fumo delle sigarette che si somma alla nebbia sopra citata (che, tranne per pochi graditi mesi, la notte è perennemente presente); manca solo la ronda di poliziotti notturni, poi le situazioni descritte da Vasco Brondi potrebbero essere ambientate sotto casa mia, ma è un posto di provincia, non posso pretendere. Insomma, non è il massimo degli scenari descrivibili, specie facendo il paragone con  gli appennini di Guccini o la Genova di De Andrè, ma si riescono lo stesso a coltivare progetti e sogni. Eppure, dalle canzoni di Vasco Brondi traspare solo rabbia o disillusione, perché “preferiamo perdere”. Mi riconosco nelle sue metafore, (e, in qualità di “aspirante scrittrice”, apprezzo molto il fatto che inserisca come termine di paragone oggetti provenienti dal mondo urbano, poiché descrivono meglio di qualunque discorso) con “occhi lucidi come le mercedes” o “parole che sono anidride carbonica”, e sarei potuta essere una di quelle che, in “fare i camerieri”, non faceva l’università, sebbene non capisca perché 30 anni fa i giovani si interrogavano cosa guardassero nel sole i gatti osservati da Alice, noi ci si debba interrogare su cosa siano gli incubi dei pesci rossi (cosa che mi è stata spiegata da un ragazzo che quegli incubi li ha capiti).

La cosa che più mi fa strano, che proprio non riesco a capire, è che molti lo definiscano “cantautore dei giovani”. Ok, noi padani forse possiamo condividere l’ansia che le varie metropoli generino, poiché le nostre possibilità, i nostri modi di cambiare il mondo, sono tutte cose inutili, abbiamo accettato che “va così”, cerchiamo solo di personalizzare questa crisi cercando a modo nostro di dare colore a questo grigio panorama, sia fisico che di prospettive future; non capisco perché un ragazzo in qualche paese inserito in un contesto ambientale o sociale diverso, privo di smog o dove l’urbanizzazione è decisamente ridotta, con magari più possibilità lavorative, possa condividere questo modo di pensare o di vivere. Siamo davvero tutti condannati a questo stile di vita? Non abbiamo nessun grande ideale o valore che possa salvarci da questa condizione di estremo nichilismo? Perché dobbiamo accontentarci di spiagge deturpate, perché esprimiamo desideri su moduli lunari che esplodono, e non possiamo vedere un cielo stellato e le varie costellazioni? Perché preferiamo perdere?

Do you remember when
It didn’t use to be so dark
And everything was possible
Still

Katatonia – The one You Are Looking For Is Not Here

È una questione di possibilità, più che di scelte. Infondo, una persona in condizioni ideali sceglie il meglio per se. Se però la possibilità di vivere in una condizione ideale viene lei negata, questa persona sceglierà sempre qualcosa che gli permetta di vivere al meglio all’interno di queste possibilità. Cosa elementare e scontata, penserai te, ipotetico lettore. Ma se una persona convinta di ciò, viva cercando di dare sempre il meglio di se, si trovasse a considerare se stessa e a pensare “ma non è questa, la vita che volevo”, cosa può fare?

Le scelte che ha fatto erano tutte razionali, non l’hanno mai portata a grossi rimorsi o pentimenti, né immediati ne a posteriori, le sue passioni le ha sempre seguite, le difficoltà sempre superate, nulla di quello che ha fatto o sta facendo potrebbe danneggiarla, le persone che ha amato, le ha amate sul serio, le amicizie che ha avuto, le ha sempre coltivate con il massimo della gioia; per i suoi sogni, non ha mai smesso di lottare.

Ma il tempo passa, i sogni si dimenticano, le amicizie cambiano i loro equilibri, gli amori diventano, nella migliore delle ipotesi, ricordi, e si rende conto di stare conducendo una vita prima di scelte sbagliate, ma della quale è solo un ospite, una turista che la osserva ma non la vive. E si trova a pensare alla teoria di Nietzsche,con il suo eterno ritorno, e si sente soffocata dal panico che potrebbe vivere questa sensazione di angoscia verso una vita buttata infinite altre volte.

Ma dopo avere lottato tanto, per poi trovarsi in una vita che non la soddisfa e non vuole, come può questa persona trovare la voglia per cambiare? Cosa le rimane?

 “Lei non fa niente che possa danneggiarla, ne è consapevole?” disse la signora.
“Si, ne sono consapevole”, disse Aoame.
<< È vero – pensò – non sto facendo nulla che mi stia recando danno. È solo che dopo rimane qualcosa. come i residui sul fondo di una bottiglia di vino>>

Murakami Haruki – 1Q84

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Existence well what does it matter?
I exist on the best terms I can.

Heart And Soul – Joy Division

Un passo dopo l’altro.

Anche se spesso è difficile.

L’importante è continuare a mettere un piede davanti all’altro, e continuare.

Anche se perdi uno degli appoggi più importanti della tua vita, e non riesci a capire il senso del perché siamo qua. Cosa ci facciamo in questa terra? Qual è lo scopo di provare a essere felice?

Anche se ti trovi a essere sola, e non riuscire mai a capire se stai percorrendo la direzione giusta.

Anche quando ti senti a casa, ma sai che la casa non può durare.

Anche quando ti senti tornare indietro di un milione di passi, di essere tornata al punto di partenza con addosso più stanchezza di prima, e la paura di non essere mai abbastanza. Non essere abbastanza forte per farcela. Non essere abbastanza per poter riuscirci. La paura di non essere.

Non essere.

La paura più grande, più di non essere abbastanza.

Un passo dopo l’altro. Ignorando queste cose. Anche se ci si guarda allo specchio e si vede un volto che non si riconosce. Anche se ti trovi a sforzarti a ridare vita a cose ormai morte. Anche se ti rendi conto che l’appoggio perso è sempre più lontano, e ogni volta che te ne rendi conto ti senti più sola. Anche se hai ormai smesso di cercare la casa.

Un passo dopo l’altro, giusto per testimoniare a te stessa di essere viva.

Il resto è solo un ombra.

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20-12-2012

Conoscevo una signora dalla testa bianca.

I suoi capelli erano completamente bianchi, e aveva gonfie mani da cui uscivano piccole meraviglie di cotone.

Lei aveva conosciuto le più grandi sofferenze, ma aveva imparato a conviverci, ignorando l’odore delle ossa stanche e lo spirito lontano. È riuscita ad andare avanti, a fatica ma ce l’ha fatta.

Se si dice che l’uomo trova le ragioni di esistere solo in se stesso, lei è la dimostrazione che non è così, e che la vita può darti grandi dolori, ma se provi a essere serena, la serenità arriva. Ha circondato di amore i suoi familiari, cercando di non fare mai male a nessuno. E quando dico “fare male”,  intendo semplicemente fare male.

Ha aiutato tutti, con la sua discrezione e la sua grande dignità di donna, talvolta sbagliando, talvolta no, diventando esempio per tutti coloro che la amano. Ma soprattutto ha aiutato me.

Ora devo fare i conti con l’assenza, non solo di una persona, ma anche di piccoli gesti, chiacchere leggere e malinconie lontane, girando per casa cercando uno sguardo che non torna.

La signora dalla testa bianca, cucinando cibi insapore e guardando fissa la televisione, è riuscita più volte a farmi capire che “la realtà è più di quello che si vede”; e che se anche il corpo un giorno non esisterà, il bene che fai rimane.

Lo so, perché questa signora è mia nonna.

Nonna, le parole non bastano a descrivere quello che hai fatto per noi. Spero che quando ci rincontreremo, sarai ancora così orgogliosa di me.

Devo ammettere di invidiarli.

Coloro che riescono a vivere la propria vita nella maniera più semplice possibile.

Coloro che non si lasciano abbattere dai malumori, dalle impressioni, dalle sensazioni negative. Riescono ad andare avanti lo stesso, seguendo il proprio obiettivo.

Non si perdono per la via, distratti da altri progetti.

Ogni cosa che iniziano la terminano, ogni cosa che realizzano è per loro una soddisfazione incredibile.

Riescono. Non ci sono altri modi per loro.

Nonostante la loro semplicità, anzi, proprio a causa di essa, riescono nella maggior parte delle cose che fanno.

A me invece sembra quasi che il tempo non mi basti.

Che per terminare una cosa è inevitabile iniziarne altre cento, mille e mille ancora, perché altrimenti non sono in grado di reggere lo sforzo, forse.

Mi sembra quasi che ottenere ciò che voglio al primo tentativo sia un’ingiustizia. Non me lo sono meritato è una delle frasi che mi urlano in mente ogni qualvolta che riesco in qualcosa. Quelle rare volte, si intende.

Eppure riesco anche io.

Li invidio perché, a differenza di me, loro quando riescono, riescono sul serio; non riescono su progetti ormai dimenticati, perché già impegnati in altro, o perché ciò che hanno fatto ha perso la brillantezza originale.

Li invidio, non devono scendere a compromessi con loro stessi anche quando sono felici.

Hanno capito come vivere.
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Don Charisma

because anything is possible with Charisma

dodicirighe

...di più equivale a straparlare.

farefuorilamedusa

romanzo a puntate di Ben Apfel

TheCoevas official blog

Strumentisti di Parole/Musicians of words

DisegnoDaniele

"Posso accettare di pentirmi di avere seguito un sogno che non sono riuscito a realizzare, ma non voglio pentirmi di aver rinunciato ad inseguirlo." [Takagi Akito - Bakuman]